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  • relazione sulla Democrazia Diretta fatta al congresso dei radicali a Chianciano

    11 Novembre 2008

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    Postato in: democrazia dei cittadini, democrazia diretta, documenti recensiti, referendum

    radicali

    radicali

    di Paolo Michelotto

    Diego Galli, responsabile sito internet di Radio Radicale,  mi ha inviato la sua “Relazione sulla Democrazia Diretta” letta durante il congresso dei Radicali a Chianciano il 31 ottobre 2008. Documento ricco di spunti e di dati, che riporto qui sotto. Viene citato anche il libro “Democrazia dei Cittadini”.

    Relazione sulla democrazia diretta

    di Diego Galli

    La questione della democrazia diretta è sempre stata al centro dell’interesse e dell’iniziativa politica radicale. Anzitutto perché è attraverso i referendum che i radicali sono riusciti ad ottenere buona parte delle loro maggiori vittorie.

    Tuttavia, la situazione di fronte alla quale ci troviamo oggi è l’impossibilità di utilizzare il referendum abrogativo a livello nazionale a causa della costante opera di vanificazione dei suoi effetti e delle sue potenzialità attuata dal sistema partitocratico. Per dare soltanto un’idea generale, basti pensare che dall’introduzione nell’ordinamento italiano del referendum (avvenuta soltanto nel 1970, con oltre vent’anni di ritardo rispetto all’approvazione della Costituzione che lo prevedeva) all’ultima consultazione referendaria (2005) sono stati promossi ben 137 referendum; la Corte Costituzionale ne ha bocciati 67 attraverso la creazione di una giurisprudenza ritenuta da molti non coincidente con il dettato costituzionale. Su 59 quesiti votati dagli elettori, 42 hanno visto la vittoria del “sì”, ma soltanto 19 di questi referendum sono risultati validi, perché 24 non hanno raggiunto il quorum dei votanti previsto dalla legge (50% + 1 degli aventi diritto) a causa di campagne astensioniste condotte dai maggiori partiti politici. Ben 5 referendum vinti sono poi stati traditi dal Parlamento con l’approvazione di leggi in contrasto con la volontà espressa dai cittadini. Questi sono: il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati (l’80% dei votanti si espresse per il Sì), la soppressione del Ministero dell’Agricoltura (quando il Sì vinse con il 90% delle preferenze), l’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti (75% dei votanti favorevole), il referendum per abrogare le norme che impedivano la privatizzazione RAI (55% voti favorevoli alla privatizzazione della concessionaria unica del servizio pubblico radiotelevisivo), e infine il referendum per l’abrogazione del sistema elettorale proporzionale (82,7% di sì).

    L’ultimo referendum ad aver raggiunto il quorum è stato votato nel 1995. Da più di 10 anni, dunque, nessun referendum ha più raggiunto il quorum dei votanti.

    L’istituto Cattaneo, all’indomani dei risultati dei referendum sulla fecondazione assistita del 2005, scriveva in un comunicato:

    «Sin dal 1999 è del tutto evidente che il quorum è tecnicamente irraggiungibile quando una pur piccola minoranza decide di usare lo strumento dell’astensionismo strategico, che si somma all’astensionismo “naturale”, progressivamente incrementato del resto dal fallimento dei referendum precedenti. Era del tutto ovvio che il quorum sarebbe stato tanto più irraggiungibile laddove il referendum avesse riguardato una legge approvata da una larga maggioranza parlamentare: da parti-ti cioè che non potevano non difendere, con il metodo per loro più efficace, le posizioni assunte in Parlamento».

    Il referendum è soltanto uno degli strumenti di iniziativa politica resi inservibili a una qualsiasi forza di opposizione sociale e politica. Tuttavia, almeno per i radicali, è forse il più importante.

    Ma non ci sono soltanto motivi politici a favore della praticabilità del referendum in Italia. Ci sono profonde ragioni legate alla visione di democrazia che i radicali hanno sempre portato avanti e incarnato.

    I referendum, strumenti indispensabili alla democrazia

    Pier Vincenzo Uleri, noto studioso italiano dei referendum nonché antico simpatizzante radicale, un nome che ricorrerà spesso in questa relazione, da anni porta avanti una battaglia anche semantica per sottrarre i referendum dalla categoria della “democrazia diretta”. Scrive ad esempio in un saggio uscito di recente (”Referendum e iniziative popolari”, in Gianfranco Pasquino (a cura di), “Strumenti della democrazia”, Il Mulino, 2007):

    «la democrazia diretta contrapposta alla democrazia rappresentativa, più che un ideale, è, sopratutto, un feticcio. Di tale feticcio si ammantano, di volta in volta, le critiche alla democrazia rappresentativa di “destre” e di “sinistre” accomunate da una stessa matrice antiliberale. Le rivendicazioni di una imprecisata democrazia partecipata e diretta sono spesso inquadrate da componenti culturali di tipo corporativo o comunitario.
    Questi avversari della democrazia liberale, anche quando agitano il feticcio della democrazia diretta si guardano comunque bene dal rivendicare in maniera esplicita e convinta gli istituti referendari. Infatti, in genere, essi sono consapevoli che il voto referendario espresso liberamente nel segreto dell’urna, è comunque una scelta individuale frutto di una cultura politico-istituzionale di origine e matrice liberale».

    E poi ancora, Uleri insiste perché i referendum e le iniziative popolari siano considerati come strumenti di controllo sui governanti nelle mani degli elettori. I referendum sono anche strumenti decisionali alternativi, quando il sistema politico risulta essere bloccato. In entrambi i sensi, i referendum sono strumenti di «liberalizzazione politica degli assetti politico-istituzionali della democrazia», per dirla con Uleri, cioè veri e propri contropoteri rispetto al potere politico.

    C’è una vasta letteratura internazionale (di cui in Italia Uleri è praticamente l’unico esponente accademico) che analizza le virtù dei referendum per la democrazia.

    Vediamo alcune di queste argomentazioni.

    • La prima è senz’altro quella del controllo dell’agenda politica. I radicali hanno sempre sostenuto che il potere più grande è quello di decidere i temi al centro della discussione e della decisione. Decidere i temi significa infatti decidere già i protagonisti e gli antagonisti, così come influenzare i criteri di giudizio sulla classe politica utilizzati dagli elettori. Il caso dei temi laici considerati sempre inopportuni o intrattabili in campagna elettorale (si ricordi il “caso Coscioni”) perché avrebbero diviso al loro interno i principali schieramenti politici evidenziandone le contraddizioni è un caso di scuola. I referendum, imponendo di discutere su determinati temi, sottraggono alla classe politica il controllo dell’agenda politica consentendo ai cittadini di influenzarla.
    • Strettamente connesso al primo argomento, c’è quello del conflitto. Nella visione radicale della democrazia il conflitto ha sempre rivestito un posto centrale. Nella visione cosiddetta elitista della democrazia, quella per cui secondo le parole del suo maggior teorico, Schumpeter, «gli elettori devono comprendere che, una volta che hanno eletto una persona, l’azione politica è compito di quella persona, non loro», conflitti e movimenti sociali sono considerati come un’aberrazione e non la norma (Cobb/Elder 1971: 897-899, 902). Sappiamo invece dall’esperienza storica che troppo spesso anche nelle democrazie si costituiscono gruppi oligarchici che soffocano conflitti potenziali scomodi alle élite utilizzando gli strumenti del potere.
    • In queste circostanze il voto è particolarmente inefficace nel punire un’intera classe politica. Una volta che sì è costituito un gruppo di politici con interessi comuni, l’omogeneità e l’esclusività dell’appartenere ad un gruppo di privilegio ristretto costituiscono una forte barriera alla possibilità che un singolo politico decida di rompere il cartello.

    La teoria del “cartello” ha trovato conferma nell’analisi dei partiti politici condotta da Richard Katz e Peter Mair: «negli ultimi decenni c’è stata la tendenza verso una simbiosi sempre più stretta fra partiti e stato. Questo fatto ha precostituito le condizioni per la comparsa di un nuovo tipo di partito, denominato e definito come “partito cartello”».

    Secondo i due studiosi: «si può ipotizzare che il movimento dei partiti dalla società civile verso lo Stato possa continuare fino a farli diventare parte dello stesso apparato statale».

    Una tendenza generale al declino della partecipazione dei cittadini nelle organizzazioni di partito ha costretto e costringe i partiti a cercare altrove, rispetto al passato, le risorse necessarie alle loro attività: «La principale strategia che potevano perseguire era quella di istituire norme per la distribuzione di sovvenzioni statali ai partiti politici che, pur variando da Stato a Stato, ora spesso costituiscono una delle principali risorse finanziarie e materiali con cui i partiti possono svolgere le loro attività sia in parlamento che nella società in senso lato. (…) Analogamente, le regole che disciplinano l’accesso ai media elettronici, che …sono soggetti a notevole controllo e/o regolamentazione da parte dello Stato, offrono a chi è al potere il mezzo per avere un accesso privilegiato, mentre a chi è ai margini questo potrebbe essere negato».

    Nei sistemi politici caratterizzati da forte presenza di partiti cartello, «la democrazia elettorale è sempre più percepita come mezzo attraverso cui i governanti controllano i governati piuttosto che viceversa». [La traduzione italiana del saggio di Katz e Mair è nel volume "Partiti e Sistemi di Partito" curato da Luciano Bardi, Bologna, il Mulino, 2006]

    Sono argomentazioni non nuovo a un pubblico radicale.

    • La teoria elitista, con l’intento di avvicinare la teoria politica alla realtà del funzionamento delle istituzioni, ha negato l’idea di democrazia come un’ideale verso cui la società dovrebbe avvicinarsi. La democrazia si è così trasformata da una pratica radicale che sottolinea l’importanza della partecipazione in una dottrina politica conservatrice. La visione e la pratica radicale della democrazia è tutt’altra. La loro storia di coinvolgimento di ceti sociali marginali e di movimenti collettivi, di invenzione di strumenti di iniziativa politica popolare, di battaglie condotte fuori dal parlamento, incarna una visione di “democrazia radicale” che prefigura forme di partecipazione e di conflitto non esauribili nel voto elettorale.

    La democrazia diretta a livello locale. Una campagna radicale

    Nell’impossibilità di utilizzare i referendum nazionali, da tempo si è sviluppato nel partito un dibattito e insieme una pratica di utilizzo di strumenti di democrazia diretta a livello locale.

    L’attenzione dei radicali al livello locale dell’iniziativa politica attraverso gli strumenti di democrazia diretta non è nuovo. Se ne occupò Giuseppe Calderisi da radicale negli anni ‘70 (”Il diritto di iniziativa e i referendum regionali”, in «Quaderni Radicali», 1979, nn. 5/6, pp. 48-97), mentre in occasione delle regionali del 2000 i radicali proposero che i nuovi statuti regionali, che i consigli neoeletti avrebbero dovuto rivedere a seguito della riforma del titolo V della Costituzione, prevedessero, oltre al presidenzialismo e al maggioritario, consistenti iniezioni di democrazia referendaria sul modello svizzero. Per l’occasione venne elaborato un progetto affidato a uno dei maggiori studiosi del sistema referendario svizzero, Andreas Auer (”Per una vera democrazia diretta nelle Regioni italiane”, febbraio 2000, disponibile all’indirizzo http://www.radioradicale.it/per-una-vera-democrazia-diretta-nelle-regioni-italiane).

    Più recentemente, in occasione della costituzione della Rosa nel Pugno, proprio Pier Vincenzo Uleri ha incalzato i radicali, con una serie di articoli pubblicati su Notizie Radicali, a intraprendere «una iniziativa politica di carattere nazionale per ampliare gli spazi istituzionali degli istituti referendari a livello locale/regionale. Questa iniziativa se avesse successo potrebbe davvero configurarsi come una sorta di rivoluzione costituzionale: una riforma di lunga gittata e di lunga durata nel tempo».

    Lo stesso Uleri tuttavia ha individuato la difficoltà di un’iniziativa simile nella debole presenza radicale e livello locale. Tuttavia, non sono pochi i casi in cui i radicali hanno di già azionato strumenti di democrazia diretta a livello locale. Si pensi ai referendum promossi da Pio Rapagnà in Abruzzo (5 Referendum regionali sui costi della politica), a quelli in Umbria (referendum sull’indennità dei consiglieri comunali), ai 4 referendum comunali promossi a Gorizia dall’associazione radicale Trasparenza è partecipazione, alle petizioni popolari raccolte dai radicali a Catania (istituzione di un registro delle coppie di fatto, individuazione di una sala per il funerale in forma civile, attivazione di un servizio per la cremazione, emanazione del regolamento in materia di strumenti di partecipazione popolare),alla delibera di iniziativa popolare sulle unioni civili presentata a Roma con 10.000 firme da Radicali Roma, e alle analoghe iniziative in corso sull’anagrafe degli eletti (Roma, Novara, Cremona).

    Gli strumenti della democrazia diretta

    La partecipazione popolare alla gestione politico-amministrativa della cosa pubblica è, nel nostro ordinamento, un diritto fondamentale, garantito dalla nostra Carta Costituzionale. Anche nell’ambito del diritto degli enti locali, gli istituti di partecipazione popolare hanno trovato esplicito riconoscimento da parte del legislatore. Il riconoscimento della centralità della partecipazione popolare quale valore fondamentale e carattere della democrazia politica ha trovato consacrazione nell’articolo 8 del Testo Unico delle leggi degli enti locali 267/2000 che delinea diversi istituti di partecipazione.

    In particolare, il T.U. prevede che nello Statuto del comune e della provincia devono essere previste “forme di consultazione della popolazione nonché procedure per l’ammissione di istanze, petizioni e proposte di cittadini singoli o associati dirette a promuovere interventi per la migliore tutela di interessi collettivi e devono essere, altresì, determinare le garanzie per il loro tempestivo esame”. Lo stesso articolo prevede inoltre la possibilità (non l’obbligatorietà) per gli enti locali di prevedere anche l’istituto del referendum consultivo, su richiesta di un adeguato numero di cittadini. Agli statuti degli enti locali spetta disciplinare, nel dettaglio, le forme di consultazione della popolazione, le procedure per l’ammissione di istanze, petizioni e proposte e l’eventuale referendum.

    L’ art. 8 del T.U. ha modificato il riferimento ai “cittadini” (legge n.142/90) con quello relativo alla “popolazione”, perchè la partecipazione popolare deve essere legata alla condizione di cittadini che presume la stabilità della residenza, ma si estende a tutti coloro che vivono, operano e studiano nell’ambito di competenza di ciascuna amministrazione locale.

    Gli Statuti regionali prevedono l’attivazione, accanto alle forme partecipative tradizionali previste dalla Costituzione – l’iniziativa legislativa popolare, i referendum abrogativi e i referendum consultivi – ulteriori strumenti di partecipazione quali l’informazione, le petizioni e le richieste di enti, i quali possono rivolgere interrogazioni, chiedere provvedimenti e prospettare esigenze all’organo legislativo regionale, nel rispetto di quanto stabilito dagli Statuti regionali.

    Nei singoli Statuti, tuttavia, il legislatore regionale, ha collocato al centro della partecipazione popolare gli istituti partecipativi previsti dalla Costituzione, privilegiandoli rispetto agli altri. Sia a livello nazionale, sia a livello regionale, dunque, si incontrano le stesse fattispecie di referendum: referendum costituzionali (referendum statutari a livello regionale), referendum abrogativi, consultivi e propositivi.

    Ogni Statuto contiene degli articoli che regolamentano e tutelano, in maniera teorica, la possibilità di partecipare ai procedimenti ed avere accesso ai documenti amministrativi. Ciò che più interessa al nostro lavoro, tuttavia, sono le misure concrete, disciplinate dalla legge, che consentono ai cittadini di partecipare. Nella maggioranza dei casi, tali strumenti sono:

    * istanze,

    * petizioni,

    * proposte di deliberazione,

    * iniziativa legislativa,

    * referendum.

    Molti regolamenti attuativi consentono anche ai cittadini stranieri e agli immigrati possono azionare gli strumenti di democrazia diretta a livello locale.

    Molto spesso i regolamenti non sono ancora stati emanati così che gli strumenti di partecipazione previsti dalla legge restano lettera morta.

    Uno strumento per lotte politiche sul territorio e possibili alleanze sociali

    Il ricorso agli strumenti di democrazia diretta sembra essere in aumento negli ultimi anni, soprattutto ad opera di comitati di cittadini slegati dai partiti e dalle altre grandi organizzazioni di interesse, per lo più legati a tematiche inerenti l’ambiente, l’urbanistica, la mobilità urbana.

    Si pensi alla recente sentenza del Tar che ha obbligato il comune di Taranto a emanare il regolamento sulla partecipazione e consentire lo svolgimento di un referendum consultivo promosso dal comitato di cittadini “Taranto futura” sulla chiusura dello stabilimento siderurgico dell’Ilva.

    O le 10 delibere di iniziativa popolare presentate a Roma da decine di comitati di cittadini con la raccolta di quasi 100.000 firme, e non ancora votate dal Consiglio comunale in violazione del proprio statuto.

    Sono molti tuttavia anche i referendum e le iniziative proposte per espandere gli strumenti di democrazia diretta.

    L’Iniziativa Più Democrazia di Bolzano, coordinata da Stephan Lausch, già attivo nei Verdi con Alex Langer, si ispira al movimento bavarese Mehr Demiocratie, che è riuscito a introdurre a livello di Lander i referendum e le iniziative sul modello svizzero.

    Nel 1995 l’Iniziativa Più Democrazia raccolse 4.000 firme per presentare una proposta di legge regionale per fare altrettano in Trentino Alto Adige. La legge fu approvata dal Consiglio Regionale, ma impugnata dallo Stato per rilievi costituzionali. Nel 2003 l’Iniziativa Più Democrazia raccolse 6.300 firme su una nuova proposta di legge di iniziativa popolare nella provincia di Bolzano. Alla fine fu approvata una legge proposta dalla SVP che introduceva referendum abrogativo e propositivo con un quorum di partecipazione del 40%. L’Iniziativa allora ha presentano una nuova proposta migliorativa sul modello svizzero. Su questa proposta ha raccolto uno schieramento di 56 diverse associazioni e raccolto tra marzo e giugno 2007 26.000 firme, più del doppio di quelle necessarie.

    Paolo Michelotto, del Comitato più democrazia di Vicenza, nel suo libro “Democrazia dei cittadini. Gli esempi reali e di successo dove i cittadini decidono” raccoglie altre esperienze di questo genere in Italia.

    Nel suo intervento al BarCamp ha descritto l’iniziativa “La parola ai cittadini”. Si tratta di incontri periodici promossi dal Comitato più democrazia a Vicenza dove i cittadini hanno la possibilità di esporre una proposta, discuterla con gli altri cittadini presenti. Alla fine di ogni incontro la proposta più votata, grazie alla disponibilità di alcuni consiglieri comunali che hanno accettato l’invito a partecipare a questi incontri, viene presentata in Consiglio comunale. I Consiglieri si impegnano anche a invitare il cittadino proponente a relazionare in Consiglio sulla sua proposta in qualità di esperto (possibilità prevista dallo statuto). La prima proposta che seguì questo iter fu quella della messa online della registrazione audiovideo del consiglio comunale. Approvata dall’assemblea di cittadini il 28 ottobre 2003 fu approvata all’unanimità dal consiglio comunale il 26 febbraio 2004, solo 4 mesi dopo.

    “La parola ai cittadini” fu organizzato 3 volte a Vicenza, 1 volta a Torri di Quartesolo e 2 volte a Rovereto. A Vicenza, alla prima assemblea, erano presenti 400 persone e furono presentate 36 proposte.

    A Rovereto venne pensata una variante, e nell’ultima assemblea le proposte più votate furono trasformate in referendum propositivi. Così sono state raccolte le firme per 3 referendum comunali: abolizione del quorum dei referendum, piano regolatore comunale partecipato, opposizione alla costruzione di una torre in un piazzale della città. Sfruttando l’occasione del V2-Day promosso da Beppe Grillo, raccogliendo le firme a Rovereto sia sui referendum di Grillo che su quelli proposti dai cittadini nell’assemblea, in un solo giorno riuscirono a raccogliere più delle firme richieste dallo statuto per i referendum propositivi comunali. I referendum saranno votati tra pochi mesi. Sarà necessario superare il quorum del 50%.

    Dall’esperimento “La parola ai cittadini” è nata anche la campagna referendaria Più Democrazia di Vicenza che attraverso il referendum consultivo ha tentato di introdurre il referendum propositivo e abrogativo nello statuto comunale. L’11 febbraio 2006 vennero presentate 5.417 firme, pari al 5% delle persone residenti nel comune di Vicenza e del 7% degli aventi diritto al voto.

    Il referendum fu messo ai voti il 10 settembre 2006, ultimo week end estivo, nel silenzio mediatico più totale. Andò a votare il 13,26% degli aventi diritto e il sì vinse con il 90,45% di voti, pari a 10.583. Nel libro di Paolo Michelotto si legge: “Nel 2006 il referendum Più Democrazia, osteggiato dall’amministrazione comunale, dai partiti di maggioranza, snobbato da quelli di minoranza (tranne in alcune eccezioni in Vicenza Capoluogo, Verdi, Rinfondazione), quasi completamente censurato dal Giornale di Vicenza e da TVA (i due mezzi di comunicazione più visti in città), finanziato con soli 1.000 euro donati da cittadini volenterosi, realizzato nell’ultimo ponte estivo con la città mezza vuota e la cui campagna elettorale per legge iniziò l’11 agosto con la città totalmente vuota e la cui campagna elettorale per legge iniziò l’11 agosto con la città totalmente vuota, ebbe 11.701 voti, ossia più delle primarie del Centro sinistra a Vicenza (9.058) e poco meno della metà di quelli del sindaco reggente (26.988).” (p. 204).

    Una nuova stagione referendaria alle porte?

    Abbiamo aperto questo dossier parlando della crisi del referendum nazionale. Tuttavia, nonostante i numeri parlino chiaro, ci troviamo di fronte a una vera e propria ondata referendaria. 3 referendum elettorali che hanno già passato il vaglio della Corte costituzionale, 3 referendum su cui già sono state raccolte le firme necessarie (i referendum di Grillo), è in corso la raccolta firme sul referendum contro il nodo Alfano, mentre si prospetta un possibile referendum contro il decreto Gelmini su scuola e ricerca.

    Come è possibile che nonostante l’evidente quasi impossibilità di raggiungere il quorum, lo strumento referendario continui ad essere così utilizzato? Evidentemente risponde ad esigenze importanti, soprattutto in una democrazia bloccata e oligarchica come la nostra. Sarebbe forse l’ora, quindi, di utilizzare questo potenziale di mobilitazione per una campagna per la riforma dell’istituto referendario, a partire dall’abolizione o dal forte abbassamento del quorum.

    Nel corso della tavola rotonda che ha concluso la conferenza “La crisi della (non)democrazia”, Giovanni Guzzetta si è detto disponibile ad accompagnare la campagna referendaria sui quesiti da lui proposti, da una campagna di mobilitazione su proposte di riforma elettorale che completino le evidenti lacune dei quesiti referendari depositati. Si potrebbe pensare a una campagna, che coinvolga anche gli altri comitati promotori dei referendum, per una proposta di riforma degli istituti referendari sul modello svizzero.

    Le proposte potrebbero essere molte. Oltre alla più difficile, la riforma dell’articolo 75 della Costituzione, si potrebbe intervenire anche sui provvedimenti sul federalismo in discussione, e ancora sui regolamenti parlamentari. Nel corso dell’ultimo appuntamento del Comitato di Chianciano sia Cesare Salvi che Rino Formica hanno proposto una riforma dei regolamenti parlamentari a costituzione invariata che imponga alle camere la discussione dei progetti di legge di iniziativa popolare entro 6 mesi dal loro deposito. Lo stesso meccanismo previsto per le delibere di iniziativa popolare a livello comunale.

    Seppure non riuscisse ad avere un impatto sulla legislazione nazionale, potrebbe tuttavia porre le premesse per ottenere importanti passi avanti a livello locale, con comuni innovatori che potrebbero divenire gli apripista di nuove forme di democrazia e coinvolgimento popolare.

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